Il processo di integrazione europea ha portato alla creazione di un ordinamento giuridico nuovo e originale che si è dovuto misurare con un problema fondamentale: come assicurare l’unità senza cancellare le diversità nazionali che costituiscono parte integrante del patrimonio giuridico europeo. Se vi è un filo rosso che attraversa i Trattati europei questo è quello della differenziazione, concepita come tratto fondante e principio generale che informa di sé l’ordinamento europeo, le sue politiche e i conseguenti strumenti di attuazione. Ed è in nome della differenziazione e della flessibilità – accolte fin dal Trattato di Roma e in seguito perseguite scientemente durante il processo di integrazione come elementi non transeunti bensì stabili dell’ordinamento europeo – che è stato possibile definire un quadro di norme condivise in molti settori in cui l’Unione europea ha esteso la propria azione. Non è un caso che il preambolo del Trattato costituzionale del 2004 parlasse di una Europa “unita nella diversità”. Il “nocciolo” del progetto che unisce l’Europa – al di là delle valutazioni economiche e politiche – consiste proprio nel concepire come una ricchezza il fatto che all’interno dell’Unione convivano molteplici espressioni e previsioni che legittimano, all’interno dell’ordinamento europeo, scelte differenziate o che autorizzano settori differenziati di applicazione di determinate normative in un complesso dinamico in cui si combinano elementi di uniformità con elementi di differenziazione. E lo stesso Trattato di Lisbona conferma e rafforza questo tratto di fondo dell’ordinamento europeo, ove unità non significa uniformità (come dimostrano, solo a mo’ di esempio, le norme sull’identità dell’Unione europea, sulle competenze esclusive degli Stati membri, sulle cooperazioni rafforzate, o i tanti opt-out rispetto a varie politiche comuni e, da ultimo, rispetto alla Carta dei diritti previsti per alcuni Stati membri). Alla luce di questo scenario di fondo, il saggio mira a porre in evidenza come nel più recente periodo si stia assistendo ad una inversione di tendenza del diritto europeo o euro-unitario verso il superamento delle differenziazioni che gli Stati membri assumono nei settori di loro competenza, in virtù dell’affermazione senza riserve del principio di prevalenza del diritto europeo. La prospettiva fertile per cogliere questa tendenza è data dall’analisi della parabola che ha subito l’affermazione e applicazione del principio di non discriminazione nell’ordinamento europeo, non disgiunta dalla valutazione delle implicazioni che esso determina nei rapporti tra il livello dell’Unione e il livello nazionale. Le notazioni critiche sollevate nel saggio traggono spunto dall’evoluzione che il principio di non discriminazione ha registrato in particolare ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia, a seguito di alcune sue più recenti applicazioni. Negli ultimi anni la Corte di giustizia ha sviluppato un filone giurisprudenziale composto da un ormai nutrito numero di decisioni che fanno leva sul principio di non discriminazione (tra questi, in particolare, i casi Mangold e Kücükdeveci). Si tratta di decisioni con cui la Corte mostra una volta di più il ruolo di istituzione di integrazione dell’ordinamento europeo; e tuttavia esse pongono problemi di non scarso rilievo sul piano dei rapporti tra Unione europea e Stati membri, oltre a sollevare non poche perplessità sotto il profilo della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento dei cittadini europei.

La differenziazione nell'integrazione europea è ancora un tratto caratterizzante dei rapporti tra Unione e Stati membri? Riflessioni a partire dalla più recente giurisprudenza sul principio di non discriminazione nell'Unione europea

TIBERI, GIULIA FRANCESCA MARINA
2010-01-01

Abstract

Il processo di integrazione europea ha portato alla creazione di un ordinamento giuridico nuovo e originale che si è dovuto misurare con un problema fondamentale: come assicurare l’unità senza cancellare le diversità nazionali che costituiscono parte integrante del patrimonio giuridico europeo. Se vi è un filo rosso che attraversa i Trattati europei questo è quello della differenziazione, concepita come tratto fondante e principio generale che informa di sé l’ordinamento europeo, le sue politiche e i conseguenti strumenti di attuazione. Ed è in nome della differenziazione e della flessibilità – accolte fin dal Trattato di Roma e in seguito perseguite scientemente durante il processo di integrazione come elementi non transeunti bensì stabili dell’ordinamento europeo – che è stato possibile definire un quadro di norme condivise in molti settori in cui l’Unione europea ha esteso la propria azione. Non è un caso che il preambolo del Trattato costituzionale del 2004 parlasse di una Europa “unita nella diversità”. Il “nocciolo” del progetto che unisce l’Europa – al di là delle valutazioni economiche e politiche – consiste proprio nel concepire come una ricchezza il fatto che all’interno dell’Unione convivano molteplici espressioni e previsioni che legittimano, all’interno dell’ordinamento europeo, scelte differenziate o che autorizzano settori differenziati di applicazione di determinate normative in un complesso dinamico in cui si combinano elementi di uniformità con elementi di differenziazione. E lo stesso Trattato di Lisbona conferma e rafforza questo tratto di fondo dell’ordinamento europeo, ove unità non significa uniformità (come dimostrano, solo a mo’ di esempio, le norme sull’identità dell’Unione europea, sulle competenze esclusive degli Stati membri, sulle cooperazioni rafforzate, o i tanti opt-out rispetto a varie politiche comuni e, da ultimo, rispetto alla Carta dei diritti previsti per alcuni Stati membri). Alla luce di questo scenario di fondo, il saggio mira a porre in evidenza come nel più recente periodo si stia assistendo ad una inversione di tendenza del diritto europeo o euro-unitario verso il superamento delle differenziazioni che gli Stati membri assumono nei settori di loro competenza, in virtù dell’affermazione senza riserve del principio di prevalenza del diritto europeo. La prospettiva fertile per cogliere questa tendenza è data dall’analisi della parabola che ha subito l’affermazione e applicazione del principio di non discriminazione nell’ordinamento europeo, non disgiunta dalla valutazione delle implicazioni che esso determina nei rapporti tra il livello dell’Unione e il livello nazionale. Le notazioni critiche sollevate nel saggio traggono spunto dall’evoluzione che il principio di non discriminazione ha registrato in particolare ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia, a seguito di alcune sue più recenti applicazioni. Negli ultimi anni la Corte di giustizia ha sviluppato un filone giurisprudenziale composto da un ormai nutrito numero di decisioni che fanno leva sul principio di non discriminazione (tra questi, in particolare, i casi Mangold e Kücükdeveci). Si tratta di decisioni con cui la Corte mostra una volta di più il ruolo di istituzione di integrazione dell’ordinamento europeo; e tuttavia esse pongono problemi di non scarso rilievo sul piano dei rapporti tra Unione europea e Stati membri, oltre a sollevare non poche perplessità sotto il profilo della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento dei cittadini europei.
2010
Edizioni Scientifiche Italiane
9788849521085
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11383/1746339
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