Il titolo De rebus del V libro delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia risulta enigmatico per colui che voglia trarne delle conclusioni coerenti dal punto di vista della scienza giuridica romanistica. La prima questione di ordine generale e di rilevanza capitale che ci si può porre concerne proprio la natura dello scritto isidoriano: quale operazione ha voluto compiere l’autore di origine romano-iberica all’interno del nuovo mondo visigoto che lo circondava? Lo scopo di Isidoro è eminentemente quello di una ricostruzione storica e quindi della consegna al futuro di informazioni relative a un passato ormai definitivamente tramontato, oppure vi sono alla base della sua opera altri intenti? Molti dati testimoniano in tal senso, ma molti altri appaiono incerti ed equivoci, cosicché risulta arduo fornire una risposta definitiva. Alcuni lemmi, poi, appaiono difficilmente interpretabili per l’esegeta, che non sempre riesce a distinguere con certezza i dati di matrice classica, da quelli affetti da volgarismo, e che soprattutto non è in grado di individuare se tale apparente confusione dipenda da una esplicita volontà isidoriana, intenta a inserire qualche notizia relativa al suo tempo, oppure dai ben noti fraintendimenti delle fonti postclassiche, in particolare occidentali, probabile bacino di provenienza del materiale delle Etymologiae: ciò che risulta sconcertante è spesso l’incongruenza e la commistione tra il tecnicismo di alcuni lemmi o parti di essi e le palesi ingenuità riscontrate in altri. La questione che, quindi, si pone insistentemente è: tali ingenuità discendono da una cattiva tradizione o interpretazione degli istituti classici oppure sono indizi dello sviluppo di tali istituti in epoca tarda? Il problema delle fonti appare quindi centrale per il giurista, come per qualunque altro studioso della grande enciclopedia isidoriana: centrale, ma, bisogna ammetterlo, anche non sempre produttivo nelle sue conclusioni, poiché risulta molto arduo rintracciare la paternità del materiale presentato da Isidoro, così come ricostruire l’ipotetica biblioteca consultabile dal vescovo iberico. Qualche considerazione, tuttavia, può farsi, partendo da un lemma specifico, quello dedicato al precario, istituto di complessa decifrazione già in epoca classica e che qui appare presentato, se possibile, in modo ancora più incomprensibile. Esso viene infatti proposto unicamente come un’applicazione specifica della concessione del creditore al debitore, per permettere a questo l’uso e la percezione dei frutti. Alcuni studiosi hanno postulato che Isidoro si riferisse, sulla scorta di Gai.59-61, alla fiducia. Questo riferimento appare per più ragioni improbabile, non tanto perché l’istituto della fiducia non è più utilizzato da secoli (dato che poco sopra Isidoro dà una definizione perfettamente classica di quest’istituto), ma proprio perché le parole del vescovo iberico conducono verso un'altra soluzione, in particolare a causa dell’uso di res sibi obligata, espressione che viene utilizzata normalmente il caso di pegno. Ciò che ha condotto fuori strada è stato il riferimento ai fondi, che avrebbe escluso la possibilità del pegno (il che non è neanche del tutto vero, come testimoniato persino da fonti classiche), ma probabilmente tale riferimento è da attribuirsi a Isidoro stesso, o a una sua fonte di epoca tarda, ed è un indizio di volgarismo. Del resto anche l’accenno ai frutti non è classico, ma viene sottolineato nel momento in cui il precario assume caratteri simili all’usufrutto (processo che comincia forse però già in Ulpiano, se non si considera spurio D.43.26.6.2). Interessante notare anche l’utilizzo del verbo demorari, che, come noto, viene impiegato già in epoca tardo-classica per indicare esclusivamente il precario di detenzione. Nella definizione isidoriana, quindi, non vi è alcuna traccia del precario di possesso e neppure dello sviluppo occidentale e orientale dell’istituto rispettivamente in comodato e locazione. Neppure si cita la prassi che era invalsa di pagare una merces più o meno simbolica, forse allo scopo di evitare la richiesta della dichiarazione della praescriptio longissimi temporis. Niente di tutto ciò appare nel lemma e questo non può che apparire assai strano, dal momento che diversi documenti ci testimoniano quest’uso del precario all’epoca di Isidoro anche da parte delle autorità ecclesiastiche. In definitiva la definizione di precarium presentata in Etym. 5.25.17 non è classica, ma non è neppure postclassica, né si attaglia in modo adeguato al VI-VII secolo d.C.; si potrebbe dire che non vi è mai stata un’epoca cui si adatta come definizione generale: è sempre stata un’applicazione utile, ma specifica dell’istituto. Quindi, se è vero che l’originalità di Isidoro si vede soprattutto dalla scelta delle fonti, che diventa già in se stessa prova delle sue convinzioni, allora qui ci troviamo di fronte a una selezione consapevole e motivata; anche se non v’è dubbio che si intravedono all’interno del lemma elementi di volgarismo e tracce di fraintendimento dell’istituto classico, vi è probabilmente anche la precisa volontà di presentare il precario in un dato modo. E’ difficile credere, infatti, che Isidoro fosse convinto di descrivere il precario di epoca classica, perché, anche se in realtà non conosciamo la fonte giuridica che consultava, possiamo ritenere improbabile che quella offrisse questo solo aspetto del precarium, dal momento che le fonti postclassiche in nostro possesso, dal Codice Teodosiano, alle Pauli sententiae, alla Lex Romana Wisigothorum, per giungere anche ai documenti conciliari, come il Concilio di Epao, prensentano tutti una sua più dettagliata, seppur trasformata rispetto all’epoca classica, analisi; persino la interpretatio alle Pauli sententiae, la fonte più simile alle Etymologiae, definisce il precarista qui per precem postulat, ut ei in possessione permissu domini vel creditoris fiducia morari liceat, senza dimenticare la precipuità della concessione del dominus rispetto a quella del creditor. Quindi, per concludere, la definizione di Isidoro deve avere una spiegazione, ed essa, a mio avviso, va cercata nel delicato momento storico vissuto da Isidoro e nella funzione primaria dell’opera, che era quella di istruire la leadership visigota, attraverso l’insegnamento della parola del passato: non bisogna in questo senso dimenticare la dedica al re Sisebut. Isidoro, grande estimatore dell’antica Roma e della sua sapienza, intendeva trasmettere la lezione di Roma ai barbari. Palesemente, per il vescovo di Siviglia, il diritto era oggetto di studio della retorica e in tal modo (come era stata la storia per molti autori classici, magnum opus rhetoricum) poteva essere valentemente utilizzato a scopi pedagogici. Non stupirebbe allora che Isidoro, ostile dal punto di vista morale all’uso a lui contemporaneo del precario in associazione con il patronatus e quindi come strumento di controllo clientelare, abbia pensato di descriverlo invece solamente come innocua, anzi quasi generosa, concessione del creditore pignoratizio nei confronti del proprio debitore. Ironia della sorte, Isidoro non sapeva che l’origine del precario era proprio quella di una concessione di fondi da parte di soggetti economicamente più forti nei confronti di altri più deboli e che quindi la definizione da lui proposta era molto lontana da quella della rogatio precaria più antica. Del resto non si dimentichi che Isidoro, ancorato emotivamente al rispetto e al rimpianto per l’antichità, è già d’altro lato uomo anticipatore del Medioevo e quindi portato a mettere in secondo piano verità storica e documentazione scientifica, a favore dell’efficacia dell’edificazione morale dei propri fedeli.

Un esempio del metodo pedagogico isidoriano: Etym. 5.25.17

BIAVASCHI, PAOLA
2012-01-01

Abstract

Il titolo De rebus del V libro delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia risulta enigmatico per colui che voglia trarne delle conclusioni coerenti dal punto di vista della scienza giuridica romanistica. La prima questione di ordine generale e di rilevanza capitale che ci si può porre concerne proprio la natura dello scritto isidoriano: quale operazione ha voluto compiere l’autore di origine romano-iberica all’interno del nuovo mondo visigoto che lo circondava? Lo scopo di Isidoro è eminentemente quello di una ricostruzione storica e quindi della consegna al futuro di informazioni relative a un passato ormai definitivamente tramontato, oppure vi sono alla base della sua opera altri intenti? Molti dati testimoniano in tal senso, ma molti altri appaiono incerti ed equivoci, cosicché risulta arduo fornire una risposta definitiva. Alcuni lemmi, poi, appaiono difficilmente interpretabili per l’esegeta, che non sempre riesce a distinguere con certezza i dati di matrice classica, da quelli affetti da volgarismo, e che soprattutto non è in grado di individuare se tale apparente confusione dipenda da una esplicita volontà isidoriana, intenta a inserire qualche notizia relativa al suo tempo, oppure dai ben noti fraintendimenti delle fonti postclassiche, in particolare occidentali, probabile bacino di provenienza del materiale delle Etymologiae: ciò che risulta sconcertante è spesso l’incongruenza e la commistione tra il tecnicismo di alcuni lemmi o parti di essi e le palesi ingenuità riscontrate in altri. La questione che, quindi, si pone insistentemente è: tali ingenuità discendono da una cattiva tradizione o interpretazione degli istituti classici oppure sono indizi dello sviluppo di tali istituti in epoca tarda? Il problema delle fonti appare quindi centrale per il giurista, come per qualunque altro studioso della grande enciclopedia isidoriana: centrale, ma, bisogna ammetterlo, anche non sempre produttivo nelle sue conclusioni, poiché risulta molto arduo rintracciare la paternità del materiale presentato da Isidoro, così come ricostruire l’ipotetica biblioteca consultabile dal vescovo iberico. Qualche considerazione, tuttavia, può farsi, partendo da un lemma specifico, quello dedicato al precario, istituto di complessa decifrazione già in epoca classica e che qui appare presentato, se possibile, in modo ancora più incomprensibile. Esso viene infatti proposto unicamente come un’applicazione specifica della concessione del creditore al debitore, per permettere a questo l’uso e la percezione dei frutti. Alcuni studiosi hanno postulato che Isidoro si riferisse, sulla scorta di Gai.59-61, alla fiducia. Questo riferimento appare per più ragioni improbabile, non tanto perché l’istituto della fiducia non è più utilizzato da secoli (dato che poco sopra Isidoro dà una definizione perfettamente classica di quest’istituto), ma proprio perché le parole del vescovo iberico conducono verso un'altra soluzione, in particolare a causa dell’uso di res sibi obligata, espressione che viene utilizzata normalmente il caso di pegno. Ciò che ha condotto fuori strada è stato il riferimento ai fondi, che avrebbe escluso la possibilità del pegno (il che non è neanche del tutto vero, come testimoniato persino da fonti classiche), ma probabilmente tale riferimento è da attribuirsi a Isidoro stesso, o a una sua fonte di epoca tarda, ed è un indizio di volgarismo. Del resto anche l’accenno ai frutti non è classico, ma viene sottolineato nel momento in cui il precario assume caratteri simili all’usufrutto (processo che comincia forse però già in Ulpiano, se non si considera spurio D.43.26.6.2). Interessante notare anche l’utilizzo del verbo demorari, che, come noto, viene impiegato già in epoca tardo-classica per indicare esclusivamente il precario di detenzione. Nella definizione isidoriana, quindi, non vi è alcuna traccia del precario di possesso e neppure dello sviluppo occidentale e orientale dell’istituto rispettivamente in comodato e locazione. Neppure si cita la prassi che era invalsa di pagare una merces più o meno simbolica, forse allo scopo di evitare la richiesta della dichiarazione della praescriptio longissimi temporis. Niente di tutto ciò appare nel lemma e questo non può che apparire assai strano, dal momento che diversi documenti ci testimoniano quest’uso del precario all’epoca di Isidoro anche da parte delle autorità ecclesiastiche. In definitiva la definizione di precarium presentata in Etym. 5.25.17 non è classica, ma non è neppure postclassica, né si attaglia in modo adeguato al VI-VII secolo d.C.; si potrebbe dire che non vi è mai stata un’epoca cui si adatta come definizione generale: è sempre stata un’applicazione utile, ma specifica dell’istituto. Quindi, se è vero che l’originalità di Isidoro si vede soprattutto dalla scelta delle fonti, che diventa già in se stessa prova delle sue convinzioni, allora qui ci troviamo di fronte a una selezione consapevole e motivata; anche se non v’è dubbio che si intravedono all’interno del lemma elementi di volgarismo e tracce di fraintendimento dell’istituto classico, vi è probabilmente anche la precisa volontà di presentare il precario in un dato modo. E’ difficile credere, infatti, che Isidoro fosse convinto di descrivere il precario di epoca classica, perché, anche se in realtà non conosciamo la fonte giuridica che consultava, possiamo ritenere improbabile che quella offrisse questo solo aspetto del precarium, dal momento che le fonti postclassiche in nostro possesso, dal Codice Teodosiano, alle Pauli sententiae, alla Lex Romana Wisigothorum, per giungere anche ai documenti conciliari, come il Concilio di Epao, prensentano tutti una sua più dettagliata, seppur trasformata rispetto all’epoca classica, analisi; persino la interpretatio alle Pauli sententiae, la fonte più simile alle Etymologiae, definisce il precarista qui per precem postulat, ut ei in possessione permissu domini vel creditoris fiducia morari liceat, senza dimenticare la precipuità della concessione del dominus rispetto a quella del creditor. Quindi, per concludere, la definizione di Isidoro deve avere una spiegazione, ed essa, a mio avviso, va cercata nel delicato momento storico vissuto da Isidoro e nella funzione primaria dell’opera, che era quella di istruire la leadership visigota, attraverso l’insegnamento della parola del passato: non bisogna in questo senso dimenticare la dedica al re Sisebut. Isidoro, grande estimatore dell’antica Roma e della sua sapienza, intendeva trasmettere la lezione di Roma ai barbari. Palesemente, per il vescovo di Siviglia, il diritto era oggetto di studio della retorica e in tal modo (come era stata la storia per molti autori classici, magnum opus rhetoricum) poteva essere valentemente utilizzato a scopi pedagogici. Non stupirebbe allora che Isidoro, ostile dal punto di vista morale all’uso a lui contemporaneo del precario in associazione con il patronatus e quindi come strumento di controllo clientelare, abbia pensato di descriverlo invece solamente come innocua, anzi quasi generosa, concessione del creditore pignoratizio nei confronti del proprio debitore. Ironia della sorte, Isidoro non sapeva che l’origine del precario era proprio quella di una concessione di fondi da parte di soggetti economicamente più forti nei confronti di altri più deboli e che quindi la definizione da lui proposta era molto lontana da quella della rogatio precaria più antica. Del resto non si dimentichi che Isidoro, ancorato emotivamente al rispetto e al rimpianto per l’antichità, è già d’altro lato uomo anticipatore del Medioevo e quindi portato a mettere in secondo piano verità storica e documentazione scientifica, a favore dell’efficacia dell’edificazione morale dei propri fedeli.
2012
978-88-387-6583-9
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