Verso la fine del luglio 1954, Fosco Maraini decise di svolgere degli studi e di girare un documentario etnografico sugli Ama, un popolo di cui era da tempo a conoscenza e che lo affascinava in modo particolare per le suggestioni visive che gli richiamava alla mente. «Poteva venirne fuori qualcosa “alla Gauguin”», disse molti anni dopo, nel corso di un’intervista. Dopo tre tentativi infruttuosi, in luoghi dove la modernità aveva già irrimediabilmente compromesso i sistemi di vita tradizionali, Maraini si diresse verso l’isola di Hèkura e l’arcipelago delle Sette Isole a nord della penisola di Noto, nel Mar del Giappone, dove risiedette due mesi, insieme all’aiuto alla produzione Murata, al cameramanTakahashi e a una giovane americana di nome Penny. Gli Ama erano un gruppo etnico che viveva in piccoli villaggi sulle rive del mare, distribuiti lungo tutta la costa centrale e meridionale del Giappone. Oggi ormai completamente assimilati dalla cultura giapponese, a quell’epoca conservavano ancora alcuni tratti culturali originali che ne distinguevano peculiarmente sia la struttura sociale, sia l’ideologia e le manifestazioni della vita spirituale. Fra questi tratti, quello senz’altro più evidente riguardava la pesca di un particolare mollusco, l’awabi, che costituiva la principale occupazione dei mesi estivi e la fonte di reddito di gran lunga più importante dell’intera comunità. La pesca agli awabi era un compito riservato alle donne che la praticavano in apnea lungo fondali che, in alcuni casi, erano profondi anche venti metri. «Le giovani – scrive Maraini – erano spesso bellissime; i loro corpi gentili e forti scivolavano nell’acqua con la naturalezza di un essere che si trova nel proprio elemento». Oltre al documentario, Maraini realizzò un reportage fotografico in bianco e nero e a colori, che ritraeva il villaggio, la sua gente, le cerimonie, ma soprattutto l’incanto della vita delle donne e la loro attività sottomarina. Non essendoci allora in Giappone attrezzature di ripresa subacquea,Maraini fece appositamente costruire uno scafandro per la cinepresa e uno per la fotocamera, così da avventurarsi lungo i fondali al seguito delleAma. In quel celebre servizio fotografico, forse il primo reportage etnografico subacqueo, Maraini seppe coniugare, attraverso la sua visione solare e disincantata, il fascino erotico e sportivo delle donne di Hèkura con la narrazione per fotogrammi di una quotidianità contrassegnata da un profondo rapporto della cultura con l’ambiente. Un Giappone per molti versi sconosciuto che l’obiettivo dell’etnologo e del fotografo riuscì a immortalare ancora nella sua piena vitalità, mentre all’orizzonte si poteva intravedere già l’autunno di un mondo destinato, da lì a poco, a scomparire per sempre.
Le Ama: etnologia e mito
CAMPIONE, FRANCESCO PAOLO
2012-01-01
Abstract
Verso la fine del luglio 1954, Fosco Maraini decise di svolgere degli studi e di girare un documentario etnografico sugli Ama, un popolo di cui era da tempo a conoscenza e che lo affascinava in modo particolare per le suggestioni visive che gli richiamava alla mente. «Poteva venirne fuori qualcosa “alla Gauguin”», disse molti anni dopo, nel corso di un’intervista. Dopo tre tentativi infruttuosi, in luoghi dove la modernità aveva già irrimediabilmente compromesso i sistemi di vita tradizionali, Maraini si diresse verso l’isola di Hèkura e l’arcipelago delle Sette Isole a nord della penisola di Noto, nel Mar del Giappone, dove risiedette due mesi, insieme all’aiuto alla produzione Murata, al cameramanTakahashi e a una giovane americana di nome Penny. Gli Ama erano un gruppo etnico che viveva in piccoli villaggi sulle rive del mare, distribuiti lungo tutta la costa centrale e meridionale del Giappone. Oggi ormai completamente assimilati dalla cultura giapponese, a quell’epoca conservavano ancora alcuni tratti culturali originali che ne distinguevano peculiarmente sia la struttura sociale, sia l’ideologia e le manifestazioni della vita spirituale. Fra questi tratti, quello senz’altro più evidente riguardava la pesca di un particolare mollusco, l’awabi, che costituiva la principale occupazione dei mesi estivi e la fonte di reddito di gran lunga più importante dell’intera comunità. La pesca agli awabi era un compito riservato alle donne che la praticavano in apnea lungo fondali che, in alcuni casi, erano profondi anche venti metri. «Le giovani – scrive Maraini – erano spesso bellissime; i loro corpi gentili e forti scivolavano nell’acqua con la naturalezza di un essere che si trova nel proprio elemento». Oltre al documentario, Maraini realizzò un reportage fotografico in bianco e nero e a colori, che ritraeva il villaggio, la sua gente, le cerimonie, ma soprattutto l’incanto della vita delle donne e la loro attività sottomarina. Non essendoci allora in Giappone attrezzature di ripresa subacquea,Maraini fece appositamente costruire uno scafandro per la cinepresa e uno per la fotocamera, così da avventurarsi lungo i fondali al seguito delleAma. In quel celebre servizio fotografico, forse il primo reportage etnografico subacqueo, Maraini seppe coniugare, attraverso la sua visione solare e disincantata, il fascino erotico e sportivo delle donne di Hèkura con la narrazione per fotogrammi di una quotidianità contrassegnata da un profondo rapporto della cultura con l’ambiente. Un Giappone per molti versi sconosciuto che l’obiettivo dell’etnologo e del fotografo riuscì a immortalare ancora nella sua piena vitalità, mentre all’orizzonte si poteva intravedere già l’autunno di un mondo destinato, da lì a poco, a scomparire per sempre.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.