Antonio Pizzolante (1958 -), esordiente, negli anni Settanta, nell’ambito della pittura figurativa di matrice neoespressionista, approda successivamente alla scultura, declinata dapprima secondo vigorose modalità materiche e indirizzata, poi, verso soluzioni installative lineari, archetipiche, primarie, minimaliste. Centrale, nell’ultima fase della sua ricerca, di cui le opere esposte e pubblicate fanno parte, è il rapporto dialogico tra la forma e lo spazio (reale e illusorio, tangibile ed evocato), a creare o a enfatizzare pieni e vuoti, concavità e convessità, orizzontalità e verticalità, che veicolano una riflessione su presenza e assenza, realtà e metafora, identità e storia. Il rimando, costante, alle culture dell’antico Mediterraneo, già baricentro della produzione degli anni Ottanta e ribadito nei cicli delle Porte, dei Portali e delle Dimore, trova ulteriore sviluppo con il tramite di un’attenta indagine sull’antropologia dei materiali (legno, ferro, metallo, pietra, carta). L’esito è un rinnovato interesse per forme minimali, colori monocromi, che paiono corrosi e consunti dal tempo, sequenze ritmiche di superfici scabre, d’innesti e cesure che acquisiscono pregnanza semantica attraverso il legame con l’ambiente e la sua architettura: una relazione vivificante che vede il contesto diventare parte integrante del manufatto e cassa di risonanza della sua esplicazione di senso, significato e significanza. Variegate le suggestioni e i modelli evocati, che spaziano dall’Informale all’Arte povera e al Minimalismo, con una forte proiezione, in ambito italiano, verso la poetica di capiscuola come Fausto Melotti, Giuseppe Uncini, Nicola Carrino ed Ettore Spalletti, cui si somma lo sguardo rivolto a protagonisti della scena internazionale: da Anselm Kiefer ad Anish Kapoor, da David Tremlett a Donald Judd, da Larry Bell a Carl Andre. Nella marcata essenzialità delle forme, poi, l’artista non manca di evocare anche mondi lontani, come quello nipponico, omaggiato con il tramite di raffinate traduzioni plastico-rituali delle atmosfere zen e mediante sofisticate allusioni letterarie haiku. Proprio questo ultimo aspetto, che funge da fil rouge della mostra, ha avuto un grandioso impatto, nella declinazione dell’ukiyo-e, sullo sviluppo dell’arte contemporanea occidentale ed è stato definito da Roland Barthes, ne L’impero dei Segni: «una poetica di vuoti, non di pieni, una poetica di silenzi, una fragile essenza dell'apparire».
«Una fragile essenza dell’apparire»: sull’ultima fase della ricerca di Antonio Pizzolante
Massimiliano Ferrario
2023-01-01
Abstract
Antonio Pizzolante (1958 -), esordiente, negli anni Settanta, nell’ambito della pittura figurativa di matrice neoespressionista, approda successivamente alla scultura, declinata dapprima secondo vigorose modalità materiche e indirizzata, poi, verso soluzioni installative lineari, archetipiche, primarie, minimaliste. Centrale, nell’ultima fase della sua ricerca, di cui le opere esposte e pubblicate fanno parte, è il rapporto dialogico tra la forma e lo spazio (reale e illusorio, tangibile ed evocato), a creare o a enfatizzare pieni e vuoti, concavità e convessità, orizzontalità e verticalità, che veicolano una riflessione su presenza e assenza, realtà e metafora, identità e storia. Il rimando, costante, alle culture dell’antico Mediterraneo, già baricentro della produzione degli anni Ottanta e ribadito nei cicli delle Porte, dei Portali e delle Dimore, trova ulteriore sviluppo con il tramite di un’attenta indagine sull’antropologia dei materiali (legno, ferro, metallo, pietra, carta). L’esito è un rinnovato interesse per forme minimali, colori monocromi, che paiono corrosi e consunti dal tempo, sequenze ritmiche di superfici scabre, d’innesti e cesure che acquisiscono pregnanza semantica attraverso il legame con l’ambiente e la sua architettura: una relazione vivificante che vede il contesto diventare parte integrante del manufatto e cassa di risonanza della sua esplicazione di senso, significato e significanza. Variegate le suggestioni e i modelli evocati, che spaziano dall’Informale all’Arte povera e al Minimalismo, con una forte proiezione, in ambito italiano, verso la poetica di capiscuola come Fausto Melotti, Giuseppe Uncini, Nicola Carrino ed Ettore Spalletti, cui si somma lo sguardo rivolto a protagonisti della scena internazionale: da Anselm Kiefer ad Anish Kapoor, da David Tremlett a Donald Judd, da Larry Bell a Carl Andre. Nella marcata essenzialità delle forme, poi, l’artista non manca di evocare anche mondi lontani, come quello nipponico, omaggiato con il tramite di raffinate traduzioni plastico-rituali delle atmosfere zen e mediante sofisticate allusioni letterarie haiku. Proprio questo ultimo aspetto, che funge da fil rouge della mostra, ha avuto un grandioso impatto, nella declinazione dell’ukiyo-e, sullo sviluppo dell’arte contemporanea occidentale ed è stato definito da Roland Barthes, ne L’impero dei Segni: «una poetica di vuoti, non di pieni, una poetica di silenzi, una fragile essenza dell'apparire».File | Dimensione | Formato | |
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