Bali è una piccola isola dell’arcipelago indonesiano in cui il legame che fonde l’uomo all’Universo che lo circonda è forte, denso, matericamente innestato in un rapporto bidirezionale, in cui le forze dei due mondi, la dimensione sottile e quella materica, si intrecciano, alimentandosi o corrodendosi reciprocamente. L’analisi della danza mascherata e dei paradigmi simbolici che sottostanno al fenomeno del mascheramento ci ha portato a rimettere in discussione l’individuo tra passato e presente, le sue scelte ed il posto che questo occupa all’interno dell’universo balinese, tra pratiche quotidiane, riti di passaggio ed espressioni artistiche. Un individuo costantemente tentato e turbato dalle forze demoniache che perversano sull’isola e impegnato in un’esasperata devozione alle numerose divinità del pantheon balinese che regolarmente scendono dalla vetta del monte Agung tra i mortali sulla terra, per osservare l’operato e garantire protezione, salute e ricchezza. Si è scelto di attraversare un itinerario che con un primo sguardo panottico introduca il lettore in un mondo che se di esotico e lontano conserva solo uno sfumato ricordo, resta, tutt’ora e comunque, opposto alla struttura noetica del pensiero occidentale. I primi due capitoli sono così rivolti alla storia ed alla geografia, territoriale e cosmica, ed alle strutture che delineano lo scheletro attorno cui ruota la concezione del mondo balinese e, con essa, ogni atto e rapporto di forza, rintracciato a partire dall’analisi del teatro e nella fattispecie della maschera, in grado di offrici un punto di partenza e di arrivo adatto per rivelare, attraverso una sineddoche, la complessità del mondo balinese nella sua interezza. Tale percorso ci ha portato ad evincere quello che si è scelto di definire un mascheramento ontologico della realtà, apparato simbolico attraverso cui una cultura proietta all’interno di regni riflessi l’alto ed il basso, il qui e l’ora. Mascheramento che nella sua accezione ontologica investe l’intero universo simbolico, riassunto nel compasso cosmico (nawa sanga), incorporato dalla maschera stessa, dal mascherato, come principio ordinatore, unito alle coppie diadiche indicate ed alla triade della tripartizione verticale degli universi ctonio, umano e divino, (Bhur, Buah, Swah Loka) la cui gerarchia ritrova omologie di purezza e impurità nella struttura dei templi e del corpo umano come negli elementi della natura, i vulcani e le acque. Come in ogni cultura altamente ritualizzata e gerarchizzata, inoltre, le divinità balinesi ci confondono: ogni matrimonio è un’unione tra purusa e predana, Siwa-Parvati; ad ogni cremazione ogni cadavere diviene re per un giorno. Ogni struttura abitativa perfettamente realizzata fa eco ai principi cosmologici, così lo spazio rituale e la politica territoriale, ruotanti attorno a innumerevoli cerimonie. Quest’ultime a loro volta incapsulate nelle coordinate della mitologia vedica, nei calendari permutazionali e lunari (pawukon e saka), nell’adorazione degli antenati, in esorcismi e principi esoterici dei sacri gruppi di fabbri, medicine-men (balian), ed altre occupazioni cariche di ritualità magica; così le forme drammatiche della danza, del teatro d’ombre (wayang kulit), dell’iconografia, manoscritti, istituzioni, rituali, arte drammatica e danza, universo e corpo umano alludono una all’altra in una riflessività perpetua. Ovunque negli ideali e nelle pratiche balinesi dobbiamo guardare, oltre queste maschere, al campo dialettico da cui emergono e, attraverso un’analisi simbolica, in cui viene meno la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, giacché si presenta con intrinseci caratteri di totalità, è possibile ricondurre ad una struttura formante (e formata da) la cultura in cui si trova e trova espressione attraverso le immagini delineate. E’ in questa dimensione che il simbolo - non semplicemente immaginario, perché anche reale - trova la sua sostanza, fungendo da ponte tra visibile e invisibile, tratto che emergerà come peculiare nell’analisi della maschera e della danza come incorporazione di elementi del sekala e del niskala balinesi. Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati all’analisi della performance coreutica, e della maschera in particolare, nonché delle strutture che ne delineano il racconto e l’estetica che permea ogni espressione artistica balinese, secondo i canoni ereditati dalla cultura indo-giavanese, nella commistione con elementi tantrici e buddisti. Per cogliere il segreto oltre la maschera, ci si deve rivolgere a ciò che nasconde, dietro di sé. Analizzando alcune maschere rinvenute nel villaggio di Temaga, abbiamo potuto scoprirvi, sul retro, la matrice da cui origina la vita, i paradigmi archetipali che generano il reale nel suo continuo distruggersi e rigenerarsi, culminante nell’unione degli opposti che si configura come esperienza cardine nella vita dell’individuo nel matrimonio inteso come fusione, in un unico essere, dei principi maschile e femminile, generatori di vita, coppia binaria in stretta analogia con cielo e terra, Akasa e Pertiwi, Purusa e Predana. La maschera funge così da principio unificatore dei due mondi in cui il costante equilibrio è espresso dall’iscrizione cabalistica riportata. Axis mundi ed al contempo axis sui, l’introiezione dello spirito divino passa per l’utilizzo della maschera, oggetto di cultura materiale che prende vita attraverso l’unione degli opposti e l’inscrizione in un principio totalizzante che fa dell’uomo il centro del mondo ed il mondo il luogo in cui l’uomo può raggiungere il proprio centro, rappresentato dall’unione dei contrari e dalla divinità Siwa, custodita in ognuno. Al contempo il mascheramento sembra porsi come condizione imprescindibile del rapporto uomo-mondo in cui il fluire della vita e degli oggetti, dei ragionamenti come delle ideologie si riflettono sulla superficie dell’esistente creando un’infinita varietà di maschere che animano il sipario nel teatro dell’uomo, il mondo della vita (Berto in Galbiati, Maiullari, 2015:33sgg). La danza topeng incarna questo susseguirsi di volti, di sguardi, di “personae”, nella rappresentazione dell’eterna lotta tra bene e male, nella raffigurazione di un passato in grado di restituire un senso al presente. Al contempo custodisce i segreti esoterici del sacerdote bramano, nascondendone il rituale, ma rivelandone il significato attraverso un simbolismo essoterico incarnato nella danza e nel danzatore, mediatore tra i due mondi del visibile (sekala) e dell’invisibile (niskala). La danza-teatro rituale, da un punto di vista fenomenologico si sovrappone al rito, collocando lo spettatore in un limen, sulla soglia tra sacro e profano, tra il quotidiano e l’extra-ordinario. Presentandosi come canale di comunicazione tra il pubblico ed il rituale, permette al primo di sentirsi partecipe del secondo. Tale coinvolgimento è condizione indispensabile alla riuscita di entrambi, il rito in quanto tale e la danza con la sua specifica funzione all’interno del rituale. La struttura in cui il rito e la danza-teatro rituale si radicano ha delle somiglianze sul piano della realizzazione pratica. Gesti e sequenze prestabilite devono essere riprodotte affinchè ne venga garantita l’efficacia. E la creazione di uno spazio altro permette all’individuo di inserisi all’interno di una dinamica rituale in cui la performance si confonde con il rito fino a rendere vana ogni delimitazione formale sicchè l’aspetto coreutico, ed il racconto ad esso inerente, volgendosi contemporaneamente agli uomini ed alle divinità, rispettivamente come intrattenimento ed offerta, unisce in sé le due dimensioni altrimenti discrete. La manifestazione del dio, attraverso la possessione o, come in questo caso, l’ispirazione del danzatore mascherato, provoca negli spettatori una sensazione di paura e di esaltazione, diluita attraverso la comicità dei personaggi, in grado di limitarne il potere straniante, incarnato nei movimenti, nei gesti, e nei costumi stessi che rendono il danzatore evidentemente un veicolo di un’alterità, per l’appunto, altra dall’umano, che sia il dio o il progenitore divinizzato ad apparire nel racconto inscenato. La figura del personaggio clawnesco (bondres) è icastica nel processo di avvicinamento dei due mondi, in quanto in qualità di intermediario comico tra il racconto e lo spettatore, garantisce un maggiore coinvolgimento del pubblico ed una partecipazione attiva di questo al rituale ed alla manifestazione del divino, senza che ne venga escluso o travolto. Viste da una prospettiva strutturalista ogni performance coreutica balinese si rivela espressione visiva, custode di un sotterraneo ordine spaziale e culturale in cui i paradigmi binari descritti trovano una manifestazione simbolica, concreta. I rituali - che fanno uso di un linguaggio sacro e segreto, esoterico, compreso da pochi e istruiti individui - convergono in una espressione essoterica, destinata al pubblico, attraverso la danza e la creazione di immagini in grado di avvicinare l’uomo al divino, pur mantenendone la distanza necessaria affinché l’ordine e l’equilibrio tra i due mondi non vengano messi a repentaglio dall’incapacità della massa di modulare, controllare e gestire le forze incontrollabili dei mondi “altri”, il cui regolatore ed emissario resta il sacerdote bramano (pedanda). Possiamo sostenere che l’arte, nella sua espressione coreutica, visiva, sonora, estetica, diviene espressione inclusiva di una conoscenza esclusiva i cui confini e frontiere invalicabili conservano il segreto (pinggit) e quindi il potere, nelle mani di un gruppo esclusivo di iniziati. Esperienza che, anche nell’accesso a spazi circoscritti, proibisce una conoscenza dei paradigmi sottesi alla performance escludendone la piena comprensione, latente, oltre la maschera ed il mascheramento, qui intesi come rappresentazione rituale in toto. Nel paragrafo III.f abbiamo analizzato la funzione del comico e la messa in atto di espedienti artistici per contrastare le forze avverse. La danza-teatro è stata così prima definita come a) offerta alle divinità (upakara); b) parte integrante del rituale divinatorio, degli atti devozionali (ngayah); c) performance esorcistica, d) mascheramento della realtà in grado di permettere la manifestazione del divino ed il contatto con i credenti; e) espressione essoterica di contenuti esoterici riservati alla casta bramana nella figura del sacerdote pedanda. Nell’appendice I è portata alla luce un’ulteriore funzione, che abbiamo definito formativa, un’autentica paideia coreutica. Tale paideia ha, per la verità, due ambiti di sviluppo: il primo si riflette negli esercizi e nella consapevolezza delle capacità e del ruolo sacro che il danzatore deve raggiungere attraverso un adeguato controllo del proprio corpo e attraverso la celebrazione di specifici riti di passaggio volti alla propria consacrazione (mawinten): la danza come disciplina rigorosa in grado di conferire al danzatore una forza ed una energia superiori. Dall’altro l’attività pedagogica della danza si esprime attraverso il racconto rappresentato, dispositivo narrativo di coesione sociale in grado di suscitare il consenso attorno alle leggi ed alle istituzioni indicate e prescritte dal racconto mitico inscenato. I dialoghi tra i servi di corte (penasar) introducono una serie di elementi discorsivi che vertono sulla religione, sull’istruzione, sulla storia e sull’attualità, in grado di trasmettere al pubblico specifici messaggi il cui scopo è di istruire e di ricordare ai presenti le regole di una retta condotta, regole istituite in passato, perciò sacre e perciò necessarie affinché l’ordine sopravviva al caos. All’interno del rito la performance ed il testo prodotti tengono inoltre in moto il sistema di identità del gruppo contro l’onnipresente disordine e contro la tendenza al decadimento. L’ordine necessita di un inscenamento rituale e di una articolazione mitica per la sua riproduzione ed apertura al pubblico. A Bali la manifestazione del moto inconscio, individuale e collettivo, trova la sua massima espressione nella produzione artistica e coreutica, e nella creazione di maschere - vere e proprie opere d’arte - in grado di dare un volto alle forze che governano l’universo, per controllarne la potenza in uno scambio continuo di energie, volto al mantenimento dell’equilibrio cosmico. Quanto descritto conferma l’impossibilità di racchiudere la performance all’interno di una specifica categoria artistica. Canto, musica, danza, recitazione, offerta, preghiera, rito, sono elementi costitutivi ed imprescindibili di qualsiasi esibizione che, in sé, racchiude gli elementi del cosmo, da cui a sua volta attinge energie per ristabilire l’ordine e portare a successo la cerimonia. A giusto titolo ci sentiamo di definire la performance topeng un’arte cosmica attraverso cui conoscere, sì, l’Altro, consci però che lungo il cammino intrapreso, potremmo, al contempo, scoprire noi stessi.

Oltre la maschera: paradigmi simbolici della danza rituale Topeng tra mito, storia e identità collettiva / Berto, Alessio. - (2015).

Oltre la maschera: paradigmi simbolici della danza rituale Topeng tra mito, storia e identità collettiva.

Berto, Alessio
2015-01-01

Abstract

Bali è una piccola isola dell’arcipelago indonesiano in cui il legame che fonde l’uomo all’Universo che lo circonda è forte, denso, matericamente innestato in un rapporto bidirezionale, in cui le forze dei due mondi, la dimensione sottile e quella materica, si intrecciano, alimentandosi o corrodendosi reciprocamente. L’analisi della danza mascherata e dei paradigmi simbolici che sottostanno al fenomeno del mascheramento ci ha portato a rimettere in discussione l’individuo tra passato e presente, le sue scelte ed il posto che questo occupa all’interno dell’universo balinese, tra pratiche quotidiane, riti di passaggio ed espressioni artistiche. Un individuo costantemente tentato e turbato dalle forze demoniache che perversano sull’isola e impegnato in un’esasperata devozione alle numerose divinità del pantheon balinese che regolarmente scendono dalla vetta del monte Agung tra i mortali sulla terra, per osservare l’operato e garantire protezione, salute e ricchezza. Si è scelto di attraversare un itinerario che con un primo sguardo panottico introduca il lettore in un mondo che se di esotico e lontano conserva solo uno sfumato ricordo, resta, tutt’ora e comunque, opposto alla struttura noetica del pensiero occidentale. I primi due capitoli sono così rivolti alla storia ed alla geografia, territoriale e cosmica, ed alle strutture che delineano lo scheletro attorno cui ruota la concezione del mondo balinese e, con essa, ogni atto e rapporto di forza, rintracciato a partire dall’analisi del teatro e nella fattispecie della maschera, in grado di offrici un punto di partenza e di arrivo adatto per rivelare, attraverso una sineddoche, la complessità del mondo balinese nella sua interezza. Tale percorso ci ha portato ad evincere quello che si è scelto di definire un mascheramento ontologico della realtà, apparato simbolico attraverso cui una cultura proietta all’interno di regni riflessi l’alto ed il basso, il qui e l’ora. Mascheramento che nella sua accezione ontologica investe l’intero universo simbolico, riassunto nel compasso cosmico (nawa sanga), incorporato dalla maschera stessa, dal mascherato, come principio ordinatore, unito alle coppie diadiche indicate ed alla triade della tripartizione verticale degli universi ctonio, umano e divino, (Bhur, Buah, Swah Loka) la cui gerarchia ritrova omologie di purezza e impurità nella struttura dei templi e del corpo umano come negli elementi della natura, i vulcani e le acque. Come in ogni cultura altamente ritualizzata e gerarchizzata, inoltre, le divinità balinesi ci confondono: ogni matrimonio è un’unione tra purusa e predana, Siwa-Parvati; ad ogni cremazione ogni cadavere diviene re per un giorno. Ogni struttura abitativa perfettamente realizzata fa eco ai principi cosmologici, così lo spazio rituale e la politica territoriale, ruotanti attorno a innumerevoli cerimonie. Quest’ultime a loro volta incapsulate nelle coordinate della mitologia vedica, nei calendari permutazionali e lunari (pawukon e saka), nell’adorazione degli antenati, in esorcismi e principi esoterici dei sacri gruppi di fabbri, medicine-men (balian), ed altre occupazioni cariche di ritualità magica; così le forme drammatiche della danza, del teatro d’ombre (wayang kulit), dell’iconografia, manoscritti, istituzioni, rituali, arte drammatica e danza, universo e corpo umano alludono una all’altra in una riflessività perpetua. Ovunque negli ideali e nelle pratiche balinesi dobbiamo guardare, oltre queste maschere, al campo dialettico da cui emergono e, attraverso un’analisi simbolica, in cui viene meno la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, giacché si presenta con intrinseci caratteri di totalità, è possibile ricondurre ad una struttura formante (e formata da) la cultura in cui si trova e trova espressione attraverso le immagini delineate. E’ in questa dimensione che il simbolo - non semplicemente immaginario, perché anche reale - trova la sua sostanza, fungendo da ponte tra visibile e invisibile, tratto che emergerà come peculiare nell’analisi della maschera e della danza come incorporazione di elementi del sekala e del niskala balinesi. Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati all’analisi della performance coreutica, e della maschera in particolare, nonché delle strutture che ne delineano il racconto e l’estetica che permea ogni espressione artistica balinese, secondo i canoni ereditati dalla cultura indo-giavanese, nella commistione con elementi tantrici e buddisti. Per cogliere il segreto oltre la maschera, ci si deve rivolgere a ciò che nasconde, dietro di sé. Analizzando alcune maschere rinvenute nel villaggio di Temaga, abbiamo potuto scoprirvi, sul retro, la matrice da cui origina la vita, i paradigmi archetipali che generano il reale nel suo continuo distruggersi e rigenerarsi, culminante nell’unione degli opposti che si configura come esperienza cardine nella vita dell’individuo nel matrimonio inteso come fusione, in un unico essere, dei principi maschile e femminile, generatori di vita, coppia binaria in stretta analogia con cielo e terra, Akasa e Pertiwi, Purusa e Predana. La maschera funge così da principio unificatore dei due mondi in cui il costante equilibrio è espresso dall’iscrizione cabalistica riportata. Axis mundi ed al contempo axis sui, l’introiezione dello spirito divino passa per l’utilizzo della maschera, oggetto di cultura materiale che prende vita attraverso l’unione degli opposti e l’inscrizione in un principio totalizzante che fa dell’uomo il centro del mondo ed il mondo il luogo in cui l’uomo può raggiungere il proprio centro, rappresentato dall’unione dei contrari e dalla divinità Siwa, custodita in ognuno. Al contempo il mascheramento sembra porsi come condizione imprescindibile del rapporto uomo-mondo in cui il fluire della vita e degli oggetti, dei ragionamenti come delle ideologie si riflettono sulla superficie dell’esistente creando un’infinita varietà di maschere che animano il sipario nel teatro dell’uomo, il mondo della vita (Berto in Galbiati, Maiullari, 2015:33sgg). La danza topeng incarna questo susseguirsi di volti, di sguardi, di “personae”, nella rappresentazione dell’eterna lotta tra bene e male, nella raffigurazione di un passato in grado di restituire un senso al presente. Al contempo custodisce i segreti esoterici del sacerdote bramano, nascondendone il rituale, ma rivelandone il significato attraverso un simbolismo essoterico incarnato nella danza e nel danzatore, mediatore tra i due mondi del visibile (sekala) e dell’invisibile (niskala). La danza-teatro rituale, da un punto di vista fenomenologico si sovrappone al rito, collocando lo spettatore in un limen, sulla soglia tra sacro e profano, tra il quotidiano e l’extra-ordinario. Presentandosi come canale di comunicazione tra il pubblico ed il rituale, permette al primo di sentirsi partecipe del secondo. Tale coinvolgimento è condizione indispensabile alla riuscita di entrambi, il rito in quanto tale e la danza con la sua specifica funzione all’interno del rituale. La struttura in cui il rito e la danza-teatro rituale si radicano ha delle somiglianze sul piano della realizzazione pratica. Gesti e sequenze prestabilite devono essere riprodotte affinchè ne venga garantita l’efficacia. E la creazione di uno spazio altro permette all’individuo di inserisi all’interno di una dinamica rituale in cui la performance si confonde con il rito fino a rendere vana ogni delimitazione formale sicchè l’aspetto coreutico, ed il racconto ad esso inerente, volgendosi contemporaneamente agli uomini ed alle divinità, rispettivamente come intrattenimento ed offerta, unisce in sé le due dimensioni altrimenti discrete. La manifestazione del dio, attraverso la possessione o, come in questo caso, l’ispirazione del danzatore mascherato, provoca negli spettatori una sensazione di paura e di esaltazione, diluita attraverso la comicità dei personaggi, in grado di limitarne il potere straniante, incarnato nei movimenti, nei gesti, e nei costumi stessi che rendono il danzatore evidentemente un veicolo di un’alterità, per l’appunto, altra dall’umano, che sia il dio o il progenitore divinizzato ad apparire nel racconto inscenato. La figura del personaggio clawnesco (bondres) è icastica nel processo di avvicinamento dei due mondi, in quanto in qualità di intermediario comico tra il racconto e lo spettatore, garantisce un maggiore coinvolgimento del pubblico ed una partecipazione attiva di questo al rituale ed alla manifestazione del divino, senza che ne venga escluso o travolto. Viste da una prospettiva strutturalista ogni performance coreutica balinese si rivela espressione visiva, custode di un sotterraneo ordine spaziale e culturale in cui i paradigmi binari descritti trovano una manifestazione simbolica, concreta. I rituali - che fanno uso di un linguaggio sacro e segreto, esoterico, compreso da pochi e istruiti individui - convergono in una espressione essoterica, destinata al pubblico, attraverso la danza e la creazione di immagini in grado di avvicinare l’uomo al divino, pur mantenendone la distanza necessaria affinché l’ordine e l’equilibrio tra i due mondi non vengano messi a repentaglio dall’incapacità della massa di modulare, controllare e gestire le forze incontrollabili dei mondi “altri”, il cui regolatore ed emissario resta il sacerdote bramano (pedanda). Possiamo sostenere che l’arte, nella sua espressione coreutica, visiva, sonora, estetica, diviene espressione inclusiva di una conoscenza esclusiva i cui confini e frontiere invalicabili conservano il segreto (pinggit) e quindi il potere, nelle mani di un gruppo esclusivo di iniziati. Esperienza che, anche nell’accesso a spazi circoscritti, proibisce una conoscenza dei paradigmi sottesi alla performance escludendone la piena comprensione, latente, oltre la maschera ed il mascheramento, qui intesi come rappresentazione rituale in toto. Nel paragrafo III.f abbiamo analizzato la funzione del comico e la messa in atto di espedienti artistici per contrastare le forze avverse. La danza-teatro è stata così prima definita come a) offerta alle divinità (upakara); b) parte integrante del rituale divinatorio, degli atti devozionali (ngayah); c) performance esorcistica, d) mascheramento della realtà in grado di permettere la manifestazione del divino ed il contatto con i credenti; e) espressione essoterica di contenuti esoterici riservati alla casta bramana nella figura del sacerdote pedanda. Nell’appendice I è portata alla luce un’ulteriore funzione, che abbiamo definito formativa, un’autentica paideia coreutica. Tale paideia ha, per la verità, due ambiti di sviluppo: il primo si riflette negli esercizi e nella consapevolezza delle capacità e del ruolo sacro che il danzatore deve raggiungere attraverso un adeguato controllo del proprio corpo e attraverso la celebrazione di specifici riti di passaggio volti alla propria consacrazione (mawinten): la danza come disciplina rigorosa in grado di conferire al danzatore una forza ed una energia superiori. Dall’altro l’attività pedagogica della danza si esprime attraverso il racconto rappresentato, dispositivo narrativo di coesione sociale in grado di suscitare il consenso attorno alle leggi ed alle istituzioni indicate e prescritte dal racconto mitico inscenato. I dialoghi tra i servi di corte (penasar) introducono una serie di elementi discorsivi che vertono sulla religione, sull’istruzione, sulla storia e sull’attualità, in grado di trasmettere al pubblico specifici messaggi il cui scopo è di istruire e di ricordare ai presenti le regole di una retta condotta, regole istituite in passato, perciò sacre e perciò necessarie affinché l’ordine sopravviva al caos. All’interno del rito la performance ed il testo prodotti tengono inoltre in moto il sistema di identità del gruppo contro l’onnipresente disordine e contro la tendenza al decadimento. L’ordine necessita di un inscenamento rituale e di una articolazione mitica per la sua riproduzione ed apertura al pubblico. A Bali la manifestazione del moto inconscio, individuale e collettivo, trova la sua massima espressione nella produzione artistica e coreutica, e nella creazione di maschere - vere e proprie opere d’arte - in grado di dare un volto alle forze che governano l’universo, per controllarne la potenza in uno scambio continuo di energie, volto al mantenimento dell’equilibrio cosmico. Quanto descritto conferma l’impossibilità di racchiudere la performance all’interno di una specifica categoria artistica. Canto, musica, danza, recitazione, offerta, preghiera, rito, sono elementi costitutivi ed imprescindibili di qualsiasi esibizione che, in sé, racchiude gli elementi del cosmo, da cui a sua volta attinge energie per ristabilire l’ordine e portare a successo la cerimonia. A giusto titolo ci sentiamo di definire la performance topeng un’arte cosmica attraverso cui conoscere, sì, l’Altro, consci però che lungo il cammino intrapreso, potremmo, al contempo, scoprire noi stessi.
2015
Bali, maschera, danza, identità, mito
Oltre la maschera: paradigmi simbolici della danza rituale Topeng tra mito, storia e identità collettiva / Berto, Alessio. - (2015).
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